The naked machine pt.3 – l’ho scampata

The naked machine pt.3 – l’ho scampata

Alex ha smesso di tremare. Immobile nel buio ha smesso ora di leggere. Voci gli arrivano smorzate.

Devo scardinare il mio corpo scassinarlo contemplare altezze diverse cercare fra i giorni sepolti ammassati scivolati giù dal calendario uno a uno, a gruppi sempre più numerosi sempre più anonimi un distico oggi un silenzio domani, battute in tempi dispari battute pericolanti giorni polverosi giorni ridotti in polvere, ammasso muto scivolato giù dal calendario mentre cerco d’inchiodarvi sopra il corpo d’inchiodarlo ai giorni, inchiodarlo al muro alla vita, inchiodarlo all’esercizio remoto, mai ultimato, portato a termine, termine di un lungo giorno, dondolala via questa paura dondolala via l’angoscia la tristezza dondolala via al centro della matassa nera avvoltolata in anni di giri e raggiri delle mani, d’acrobazie, voltarsi e rivoltarsi su te stesso aggrovigliato avvolto in una matassa nera calda come la sciarpa ecco è per te un segno del mio esserci mi commuovi ti ringrazio. Com’è calda. E morbida. Ricorda il latte fumante d’infanzia. Così avvolgente e profumato. La terrò sempre con me. Poi, in una notte d’inverno come questa, con uno straccio di luna a serpeggiare sopra il muro, i capelli incrostati dalla brina del solito vagare, il pavimento ingombro di caduti (giorni e giorni ammassati scivolati giù dal calendario), la stringerò più forte al collo, pensando al bene che ti voglio, che ci vogliamo – questo bene che già ci fa male – e a occhi aperti, svuotati d’ogni incanto, alfine io…
mi c’impiccherò.

Sto lavorando assai a rilento al mio racconto-diario, che è anche la voce di Federica, la lunga nota incrinata, l’ascesa frantumata di cui resta una polvere finissima che fa sanguinare gli occhi e i polmoni. Gli ultimi equilibrismi sulla balaustra e poi “lasciami andare” (pag. 224). Racconto d’ospedali, di viaggi per l’Europa, Berlino, eroina, le labbra livide di un’amica suicida nell’Havel, dei libri che ho letto, dell’ultimo inciampo sull’ombra incerta d’un tredicenne… Meglio non esagerare, non voglio essere frainteso, le parti che seguono ho preferito espungerle, quello che potevo spiegare l’ho spiegato, l’immagine del giovanissimo Eros col membro eretto (pag. 236) viene dai Frammenti di Barthes, tredici anni, l’attimo prima che la coscienza s’inabissi, che il sé cristallizzi in identità.

Santi derelitti affogati nel vomito nel piscio chiazze di sangue sulle pareti dei cessi vicino alla stazione zoo il luogo mitico dei miei sogni di adolescente quando correvo fra le pagine di un libro come sul tetto di un grattacielo, Ziggy Stardust in sottofondo. Rafael, tredici anni, in volo, l’espressione concentrata mentre salta, un braccio in alto l’altro in basso perfettamente allineati alla gamba per annullare il suo peso e la stessa gravità che lo perseguita, l’attrazione sconsiderata verso terra, verso lo schianto. Cerca una conferma qualunque per sostenere il suo peso, una solidità rassicurante, che non minacci di spalancarsi a ogni passo. Un orlo da cui sporgersi dicendo l’ho scampata.

C’è qualcuno che regge la telecamera. Dev’essere dio, visto il potere che ha di decidere della mia vita. Può smettere di fare le riprese, spingermi contro il letto guardandomi dritto negli occhi, i tuoi occhi sono laghi ghiacciati direbbe, vorrei attraversarli, vorrei che si spaccassero, direbbe, richiudendosi su di me. Ma non lo dice stavolta. Stavolta mi spinge contro il letto con la mano che ha retto per giorni la telecamera e ha retto per giorni la mia vita. M’inchioda al letto e non oso dibattermi tanto il momento è solenne, tanto l’ho aspettato esercitandomi nel buio. Preme il cuscino sulla mia faccia e io l’aiuto aprendo bene la bocca. Quando affonda il coltello sono già morto e i gridolini li faccio non per lui ma per te che mi guardi da oltre la telecamera, da un altrove. Dall’aldilà. È solo questione di punti di vista.

Ti dicono che non puoi amare due giovani amici polacchi che si amano. Ammanettandoti lo dicono. Non gl’importa se indossava una maglietta con la scritta España il ragazzino dagli occhi di ciliegia blu oltremare, non gl’importa che sorrida né che beccheggino i suoi occhi blu oltrecielo tendendoti un naufragio. A loro importa solo se erano nudi o vestiti i due giovani amici polacchi, se si amassero o no non è importante, dicono. E ti gridano che la ciliegia ha il colore della ciliegia e il mare ha il colore del mare colpendoti dritto allo stomaco. L’accusa è disobbedienza recidiva alla tautologia – di questo passo anche il giorno ha il colore del giorno ma noi sappiamo che il giorno a volte ha il colore della notte e la notte del giorno.

Un solo pezzo basta a fare un vivo
Un residuo di carne è un uomo intero.
Un dito solo, un’ala mutilata
E tutto il corpo ritrova il suo volo.
(Miguel Hernàndez)

¬– ammassati – stritolati fra i denti della mondoruota – la ruota capitale ¬– le nostre bocche vuote di miseria – i nostri occhi vuoti di miseria – le nostre mani vuote di miseria – i nostri sessi gonfi di miseria – coi denti stretti – quelli che restano – bottiglie vuote – quelle che restano – bottiglie scolate – occhi scolati con fondi di stanchezza – con gli anni rotti – quelli che restano – e fra le labbra un pezzo insanguinato d’anima – quel che ne resta – che penzola – sputando sangue – tossendo un po’ di vita – quella che resta – scavate più a fondo – un sottofondo – nel sottosuolo – d’anni strappati – stritolati fra i denti della mondoruota – respiri appiccicosi ¬– Kiska Leonid Sasch – col fiore in bocca – e Pascha anche stamani ha espettorato l’Antenora con un colpo di tosse – ha riempito d’inferno il sagrato – scavato a mani nude fra i loro resti – buttati in pasto a uccelli bianchi – più umani degli umani che non gridano abbastanza – i gridi scagliati come pietre – in questa solitudine di letto – la pellaccia inaridita – masticata da certezze spavalde ¬– quelle che restano ¬– e schiaccia con furia capitale – la mondoruota – tirata da bestie da soma – che tirano il tossico – e sputano sangue sul sagrato ¬– durante le vostre messe capitali – coi gridi dei gabbiani  – a picco sulle discariche ¬¬– coi gridi trattenuti ¬– nei vostri petti vuoti di miseria – le bocche vuote di miseria ¬– nei vostri occhi vuoti di miseria – le vite smembrate brano a brano – sparse su treni senza sogni – buttate in stazioni senza sogni – o nelle fogne – e un uomo è solo –  un residuo di carne – è solo –
solo un residuo di carne –

Mi butto è deciso non mi ficco un coltello in gola, questo l’ho già fatto nella stanza di Mel l’hai scordato? (pag. 136-38) Scavato a mani nude fino a trovare l’acqua, tu col ventre illanguidito, col colpo in canna, io. È per questo che non l’ho mai incontrato. Faremmo l’amore ma poi dovrei lasciare che si ammazzi allungando la lista delle cose che non potrò mai perdonarmi. M’innamoro per essere tradito, faccio sempre centro ma il mio è un bersaglio suicida. Rafael, Mel, Lou. I bambini ti tradiscono per forza, crescendo ti tradiscono, è per il fatto stesso di crescere che ti tradiscono. Io sono cresciuta quando mio padre ha smesso di toccarmi. Non sarei mai cresciuta se solo avesse continuato, per fargli piacere. Da allora abbiamo fatto voto di silenzio. Del resto cosa avremmo potuto dire? Tempo di smetterla? Termine di un lungo giorno?

 

Scarica il PDF della versione completa

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva