The naked machine pt.2 – two old men

The naked machine pt.2 – two old men

Alex salta alle ultime email, le più recenti.

So che a volte gioco per la sola cupa soddisfazione di barare ai miei stessi danni, solo perché altrimenti sarei morto d’inedia, o di raffreddore, o sarei morto mangiato dalle alghe carnivore che si agitano sul fondo di questi ricordi artificiali, chiusi qui con una diga per essere liberati nei giorni di secca quando la fantasia sfiata con un sibilo il suo ultimo sbuffo di calore in questo cretto gigantesco di ferita terra ocra. Spaccata. Un uomo è sepolto in un angolo. Interrato fino alle spalle. Lo si sostenta quel tanto che basta perché non muoia di fame e di sete. Gli si rasano i capelli a zero (sempre lo zero matto nel giro che s’arresta e la conferma che tutto hai perso) e gli si lega sulla cute una pelle conciata di dromedario. Lo si sostenta per i giorni necessari affinché i capelli gli ricrescano. In che direzione? Non trovandosi strada nell’impenetrabile autobotte del deserto, la pelle conciata del dromedario, detti poveri capelli non possono che conficcarsi nello stesso cranio che li ha generati, e che continua ciecamente a rigenerarli a giudicare dalle urla del poverino che si sente leggermente impazzire per tutto il dolore e le urla mettono radici inestirpabili dentro di lui. Come in under the shadow of this red rock…

Luca comincia a capire. No, a non capire. Sarei Lucifero dunque? T’inganni come io stesso mi sono ingannato. Sono io il creatore, il creatore di questo mondo di ghiaccio. Ma infondo non ho creato un cazzo. Quegli altri due (“quell’altro con cui scrivo che domani sicuramente sarà venuto a trovarmi in ospedale”, pag. 137)? Neanche loro hanno creato un cazzo.

Il cesso è il miglior amico dell’uomo. Ti ci puoi prostrare davanti, abbracciarlo e mentre lo fissi in quel suo occhio ciclopico, accecato, quel globo buio che se sai leggerlo ti rivela il futuro, puoi vomitargli dentro i tuoi incubi sicuro che non li racconterà a nessuno. Li affogherà nelle sue schiume bianche, li succhierà in un gorgo confondendoli a tutte le paure del mondo a tutti gli incubi e li porterà lontano. Ci ho passato tutta la notte nel cesso vomitandogli dentro le mie paure.

La paura che Federica non farà più ritorno e la paura di fallire, di avere già fallito creando questo mondo inabitabile, questa prigione di ghiaccio piena di crepe pronte ad inghiottirti a ogni passo. Mio padre, quel povero vecchio bavoso se ne sta absconditus nel suo buco nell’assito della mia camera, mia madre Hilmegard prova a svegliarmi con la conoscenza: la conoscenza è sempre femmina e madre, terribile e antica, molto antica.
Un punto nel pensiero e quest’ombra i miei organi muti praticamente morti alla parola e bambini mezzi nudi la mano distesa verso l’arco di luce il sopracciglio di un occhio solo che piange seduto nel deserto per quaranta giorni nel deserto del mio letto della mia vita.
Alex non si preoccupa più di avere o non avere scampo. Non è della Inside che deve preoccuparsi, né della Māyā, non del piccoletto che gli ha sparato, non di Luca né di Federica.

Ciò a cui stiamo assistendo, è l’esplodere della coscienza di Luca che schizza in fiotti di catene associative (per questo l’uso insistito della citazione).

Ho riletto tutte le schede ricevute finora. Ciò su cui tutti sembrano d’accordo è che si tratti di un romanzo corale, o meglio di un tentativo di romanzo corale. Un tentativo fallito.
Ma non è un tentativo di romanzo corale! Tutt’altro, direi. Gli adolescenti sono chiusi in se stessi, incapaci di comunicare perché neanche si conoscono, provengono da storie diverse, sono titoli di giornali, stralci di blog, sono canzoni, fotografie (a un certo punto compaiono fra i personaggi Mel, Valerie, Gilles, Lou e Joana, gli amici fotografati da Nan Goldin).
Se non si capisce questo… anzi, visto che a quanto pare non si capisce affatto, è proprio qui che m’impegnerei , ma non per cercare di rendere la narrazione organica e corale. Quello che dovremmo far risultare chiaro è che c’è qualcuno che inventa storie, le mischia a memorie a sollecitazioni esterne, parla con fantasmi che non ha mai incontrato. È come voler rintracciare una trama coerente e compiuta in dei flussi mediatici (e di coscienza) captati a singhiozzi.
Se tutti quei personaggi si ritrovano insieme, all’interno di uno stesso mondo (o in una molteplicità di mondi o di visioni del mondo), non è per cantare in coro una storia. È solo perché qualcuno (Luca, o meglio, noi) li ha messi in relazione fra loro. Li ha ritagliati da qualche giornale o scaricati dalla rete.

Luca frattanto rivà col pensiero a quando Federica s’aggirava nuda per casa. Indossava con naturalezza infantile la sua nudità, e parole le fiorivano sulle labbra, si staccavano, si foravano e si rovesciavano, fluttuavano, spezzandosi, ricombinandosi, vorticavano attorno al suo corpo nudo galleggiando annegando riemergendo in nuove sembianze, in nuovi significati.
Luca ricordava allora quando da piccolo aveva paura di chiudere il libro che stava leggendo o anche solo di voltare pagina e lo faceva con attenzione e devozione e reverenza temendo che quelle parole si staccassero e si mescolassero l’una all’altra formando rivoli neri e una pozza nera sulla pagina che avrebbe inghiottito anche le figure e il suo cuscino il suo letto la sua casa e lui stesso.
E ricordava, ancora, quando correva sulla spiaggia della sua infanzia, il mare nero la sabbia bianca e tutto il resto grigio. Correva con un sacchetto del pane fra le mani controvento per acciuffare le parole perse nell’aria: chiudeva il sacchetto l’accostava all’orecchio e lo faceva scoppiare fra le mani liberando tutte quelle parole in un sol colpo fragoroso come un tuono e ricordava la grafia terribilmente precisa di Federica che scriveva su piccoli fogli colorati o sui muri, una manciata di parole sparse nel vento semi d’ossidiana esplosi in alberi tubolari che spingono con forza gridando un parto di luce in questa gomma buia che ci isola un’ascensione di parole approdate in riva al mio risveglio lento impenetrabile parole con una polpa dentro una piccola vita da proteggere parole sparse nel vento della sera dell’alba che inseguo a piedi nudi su sabbia tagliente conchiglie rotte vetrini colorati verdi marroni blu e povere cose morte sotto le tue parole che pianto nel giardino del mio petto.

Alex può solo seguitare a leggere…

Beckett, Burroughs: in quale dei due universi vorrei vivere? Amo dell’ultimo la mascella d’acciaio, che ti strappa la carne. Detonazioni, vertigini, schianti: esplosioni al calor bianco di coscienza. Eppure mi so tra gli Esausti beckettiani, sepolti vivi sotto una pagina bianca.

Luca, come Malone, vive parassitariamente dei suoi personaggi.
Niente può cominciare e niente può finire, i personaggi di Beckett sono fatti di parole e obbligati a parlare. Parlando essi vivono o non finiscono mai di morire.

“Se la finissi? Se decidessi proprio adesso di farla finita? Non per continuare a farla finita, per finire ancora e ancora e non finirla mai con la fine – questa fine che non vuole finire. Finire nel senso vero della parola o nel non senso vero della parola. Non ci sarebbe più nessuna parola – pensa! – nemmeno fine.” (pag. 299)

L’Innominabile è, come Luca, solo un tramite di voci. Cosa racconta il romanzo? Nient’altro che l’interminato processo di liberazione dalle tante voci che lo invadono e assediano.

“Di chi sono tutte queste voci che mi parlano per la testa?” (pag. 299)
“Sono ognuna di esse. Ogni me ogni te ogni voi ogni pronome. And I like to be you.” (pag. 231)

Burroughs usava dire: “Gli scrittori sono di due tipi, quelli che fanno finta di avere il toro davanti, e fanno due o tre mosse con il culo così olé olé, e con le banderillas e le picadillas, ma non c’è nessun toro, e loro sono solo degli smerdatori, e quelli che invece sono stati lì, per poterlo raccontare, e il toro lo hanno guardato dritto negli occhi.” Verrà la notte in cui scopriremo se qualcuno è morto per spada o per corna beffarde.

E leggere…

Forse dovremmo smettere di considerarlo un romanzo, magari lo si comprende meglio pensandolo come un’antologia di casi clinici, come un tracciato sismico che disegna gli smottamenti della psiche contemporanea. Perché pretendere unità e strutturazione organica?
Dice bene la editor: “Nel sottogenere più formalista della fantascienza il come esprime il cosa. Quindi, se l’autore vuol raccontare un mondo a pezzi, personaggi incapaci di agire, uno stato di attesa costante, non può farlo che attraverso un plot destrutturato e una molteplicità di registri e codici che rasentano l’incomunicabilità.”
Dice bene, ma sbaglia a identificare il cosa del nostro romanzo. È lo scontro intergenerazionale? Sono le nuove dipendenze? La guerra come videogame? Dovremmo cominciare col chiedercelo noi stessi (e sono certo che daremmo risposte molto diverse…).
Per me è il percepirsi a salti quantici, a stati discreti senza alcuna continuità (come recitare la farsa della continuità se a ogni risveglio non si è più gli stessi?).
È questo secondo me il nocciolo di KS (seguito a chiamarlo così), il nucleo instabile, il centro pazzo di un’esplosione incontenibile: quando la vita smette di accaderti… so di ripetermi ma penso all’Innominabile (possibile che nessuno s’accorga dell’affinità col mondo beckettiano, qualcosa che va al di là delle citazioni da almeno 10 sue opere?). L’innominabile, una bolla carnosa senza orifizi, niente narici niente orecchie niente bocca, niente. E intorno sfilano come spettri Murphy, Molloy, Malone, Watt, Mercier e Camier. Sfilano solo nella sua mente, nella visione del mondo di Beckett. È di questo che si tratta, uno zampillio di parole che non possono fermarsi. Devi continuare a parlare se vuoi vivere. Ma quando la vita smette di accaderti, succede che ti metti a razziare le vite degli altri, appoggi la schiena a un lampione, al centro di una “piazza fitta di anemiche esistenze biascicate” (pag. 300) e la tua visione del mondo prende a popolarsi d’esistenze rubate dalle pagine di un giornale, da un film di Bertrand Arthuys (pag. 349) o da una foto di Nan Goldin (pag 114-115, 299).
Gli indizi sono tanti, ma affiorano appena. Forse il nostro compito è disseppellirli, altro che mettere a fuoco il plot, dare coerenza alla struttura… come pretendere coralità dai personaggi quando nel finale si scopre che nemmeno esistono, che sono nomi e abbozzi di storie su uno schermo. E’ mai possibile che nessuno abbia capito che Tom e Lola sono solo le fantasie di qualcuno a cui la vita a smesso di accadere, qualcuno che guarda un film (la custodia è sulla scrivania di Luca), s’immagina le vite dei protagonisti e se le immagina tanto forte che quelli prendono a sfilargli davanti, a girargli attorno (come altrettanti Murphy, Molloy, Malone, Watt, Mercier e Camier…)?

 

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