Chott-el-Djerid

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Solo un anno fa non avevo neppure il sospetto della tua esistenza e ora pare che ecceda da ogni fessura… Ti ho creduto, Luca. Ti ho amato. Ma non bastava. Non ero felice. E credo che neanche tu lo sia stato, se il mio parere conta ancora qualcosa per te. Non ero nitida. Ero fuori fuoco. Chott-el-Djerid. Un ritratto di luce e calore.
Delle nostre notti insieme ricordo un saliscendi di cerniere singhiozzanti, strappi laterali e un chiedere e dare in mezzo a troppa logica.
Quella notte ti chiedevo cose che non ti chiederei mai: «cosa vuoi da me?» ero confusa. Mi confondevi. Ridendo, mi hai risposto «proprio nulla, sai… davvero, niente». Niente, niente, niente… volere qualcosa da te, io? Ossessivamente, ti ho amato per quel niente.
Ma c’era ancora qualcosa che dovevo sapere. Qualcosa di me che dovevo scovare. Un grumo sepolto che non potevi sciogliere. Per questo ho dovuto andarmene gridandoti che le leggi delle corrispondenze sono fandonie, che non possiamo vivere dentro una griglia con tutti gli accenti al posto giusto, che i numeri non spiegano tutto. Ho provato a strisciare verso il silenzio. Verso l’immobilità interiore. Ho provato a prendermi per i capelli e staccarmi la testa. Cacciarmi una mano in gola e strappare lo stomaco. Gridare in eterno contro questa incoerenza. Avevo bisogno di superfici grinzose, rattrappite, materia organica che ti si appiccica addosso finalmente, e finalmente ti fa sentire di avere una pelle, di essere una dannata pelle!
Le distese di pura logica che mi hai dischiuso innanzi mi spaventano. Questo ghiaccio abbacinante su cui non si può camminare. Ho avuto allora bisogno dell’inferno. È lì che dovevo ritrovarmi. Prendermi in braccio e strapparmi a questa vita. (pag. 325-26, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)

Bill Viola, Chott-el-Djerid

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