È un procedimento alchemico complesso, cosa crede? Epurare gli umori più foschi perseguendo il cammino tortuoso dalla nerezza alla luce. Nigredo e albedo, come lei stesso m’insegna. Ma i tempi sono cambiati professor Vitale, oggi non serve scomodare fiamme purificatrici. Ogni risposta è nella chimica, la più metafisica delle scienze esatte. L’arte suprema che dobbiamo imparare è quella del dosaggio, dell’equilibrio. Io da anni la studio. Non si fidi dei medici, sono finte vestali con quei loro camici bianchi da due soldi. Le parlano d’interazioni sinergiche e schierano le loro molecole in modo inefficace, sovradosandole o sottodosandole, sovrapponendo vettori che schizzano nella medesima direzione come se avesse qualche senso preferire la sedazione, o l’eccitazione, la rimembranza o l’oblio. È la vecchia conjunctio oppositorum il segreto ultimo. Vede qui nello stesso bicchiere, quaranta gocce di Tramadolo©, un oppioide sintetico, seicento milligrammi di Modafinil©, che restituirebbero un narcolettico alla veglia, due antagonisti, insomma, accompagnati da un grammetto abbondante di Oxiracetam©, tanto per non tenersi la lucidità nelle mutande, come cantava quel bardo anarchico e maledetto che lei certamente ricorderà. Segua questa dieta e sarà in grado di distillare anche lei, come me, momenti d’assoluta chiarezza. Mi segua Isidoro, mi segua, la prego.”
Madre Ana che sei nei cieli
Libera me
Liberami dal peso degli sguardi
Che attorno mi volteggiano
Schernendomi
Gracchiando disprezzo brutale
Per i fiori di grasso
Che sulle cosce mi sbocciano
E sulle natiche
Spargi su di me
La tua fame benedetta
Magra fra le magre
Gonfia d’impeto celeste
I fiumi delle vene
Fa che brillino
finalmente
Attraverso la pelle diafana
Che trionfi
La grazia del mio scheletro perfetto
(pag. 173, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Marina Abramović, Nude with Skeleton
Solo un anno fa non avevo neppure il sospetto della tua esistenza e ora pare che ecceda da ogni fessura… Ti ho creduto, Luca. Ti ho amato. Ma non bastava. Non ero felice. E credo che neanche tu lo sia stato, se il mio parere conta ancora qualcosa per te. Non ero nitida. Ero fuori fuoco. Chott-el-Djerid. Un ritratto di luce e calore.
Delle nostre notti insieme ricordo un saliscendi di cerniere singhiozzanti, strappi laterali e un chiedere e dare in mezzo a troppa logica.
Quella notte ti chiedevo cose che non ti chiederei mai: «cosa vuoi da me?» ero confusa. Mi confondevi. Ridendo, mi hai risposto «proprio nulla, sai… davvero, niente». Niente, niente, niente… volere qualcosa da te, io? Ossessivamente, ti ho amato per quel niente.
Ma c’era ancora qualcosa che dovevo sapere. Qualcosa di me che dovevo scovare. Un grumo sepolto che non potevi sciogliere. Per questo ho dovuto andarmene gridandoti che le leggi delle corrispondenze sono fandonie, che non possiamo vivere dentro una griglia con tutti gli accenti al posto giusto, che i numeri non spiegano tutto. Ho provato a strisciare verso il silenzio. Verso l’immobilità interiore. Ho provato a prendermi per i capelli e staccarmi la testa. Cacciarmi una mano in gola e strappare lo stomaco. Gridare in eterno contro questa incoerenza. Avevo bisogno di superfici grinzose, rattrappite, materia organica che ti si appiccica addosso finalmente, e finalmente ti fa sentire di avere una pelle, di essere una dannata pelle!
Martina ricordò un suo viaggio a Kabul. A quei tempi si leggeva Howl. I ragazzi azionavano la dinamo stellare con pedalate vigorose e spensierate collegandosi al meccanismo della notte. Era partita da Amsterdam, ricordi il Magic bus? L’autobus era disceso lungo le strade d’Europa, aveva attraversato i Balcani che allora si chiamavano Jugoslavia, da Nord verso Sud, e in qualche giorno aveva raggiunto Istanbul. Poi aveva ripreso la traversata correndo lungo il mar nero fino a Trebisonda, poi giù verso il paese curdo, verso Suleymanja, poi la Mesopotamia, fino al confine iraniano. Qualche problema a Teheran dove a quei tempi c’era quel porco di Rehza Pahlevi, ma se non finivi nelle mani della SAVAK tutto poteva filare liscio, e infine l’autobus aveva superato le montagne afghane verso la meta finale.
Isidoro Vitale si svegliò con un terribile mal di testa. Ne soffriva da decenni ma negli ultimi tempi gli attacchi si erano fatti sempre più frequenti. Si svegliava così, con un intenso dolore alle tempie che gli impediva quasi di respirare. Per fortuna quella mattina poteva restare a letto.
Durante queste crisi di emicrania, che arrivavano specialmente la mattina, il corpo era quasi paralizzato. I movimenti divenivano lenti e penosi, ma Isidoro non smetteva di pensare. Il pensiero si organizzava in forma di loop. “Il cerchio non si chiude” si diceva mentre sullo schermo interiore della sua mente si proiettava sempre lo stesso film. Una scena d’infanzia, quando andava al mare coi genitori, bambino filiforme le gambe ossute come lunghi stecchi di legno. E sullo sfondo il mare nero la sabbia bianca e tutto il resto grigio. Un guizzo associativo collegava questa scena a un’altra, incastonata nella sua memoria dopo la visita a un museo del nord. Una goccia cade rítmicamente da un rubinetto sulla pelle tesa di un tamburo, il suono enormemente amplificato. La goccia ingrandita cento volte su uno schermo scende dal pertugio metallico del rubinetto, e vibra ingrossandosi e trema e si allunga e si lacera infine cadendo col rumore di un tuono. Poi lo sguardo di Federica l’ultima volta che si erano visti invadeva la sua mente come inchiostro scuro. L’ultima volta, quando gli aveva parlato di quell’oggetto misterioso dal nome quasi impronunciabile che lei aveva scoperto in una tomba dalle parti di Hierve el agua. (pag. 10, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Bill Viola, He weeps for you
Si sì se ne vada professor Vitale, ma prima mi lasci dire quello che penso sui giovinetti che siamo pagati per educare. E sulle giovinette, va da sé. Vede, nei tempi antichi gli esseri umani pensavano di essere, generazione dopo generazione, dei nani che sedevano sulle spalle di giganti. Siamo piccoli, dicevano, ma da questa posizione riusciamo a vedere lontano, più lontano di quanto vedessero i giganti che ci hanno preceduto. Bene, questa storia è finita, mi capisce? La generazione che nacque dopo Hiroshima pensò di rovesciare la tradizione. Siamo giganti sulle spalle di nani, urlarono i nostri fratelli minori, quelli che adesso hanno cinquant’anni e strisciano per avere un posto nell’ufficio studi di una corporation che succhia il cervello ai bambini. Siamo giganti, ah ah… capisce? Quei bastardi dei sessantottardi andavano in giro dicendo, noi siamo quelli giusti, quelli belli, mica come quei porci dei nostri padri, pensi un poco in Germania, nel sessantotto, tra padri e figli che razza di casino. Papà, hai torturato dei comunisti, hai tolto i denti a un ebreo con le tenaglie, gli chiedevano al pranzo di Pasqua, papà, hai torturato qualcuno quando eri ragazzo? Così dicevano, e adesso dirigono un giornale o un talk show in prima serata, e zac, tagliano lingue con il forbicione, e della tortura non ne vogliono più parlare, anzi non gliene importa niente, certo i torturatori di oggi sono più fotogenici, o almeno cercano di esserlo. Erano giganti sulle spalle di nani, e adesso?
«Sa una cosa?» disse Forza come se a un tratto gli fosse venuta un’idea «ho notato che sono timidi. Mi spiegherò meglio. Essi pensano una cosa, ma non la possono fare. Essi sentono un’emozione ma non la possono dire. Non vi è più collegamento tra stato mentale ed esecuzione motoria. La volontà non è più in grado di muovere la muscolatura. Si muovono per effetto di altri impulsi. Non quelli che provengono da dentro, non l’impulso della volizione cosciente. Impulsi esteriori. Sono impulsi esteriori quelli che li mobilitano. Invisibili, onnipresenti, proliferanti fili d’argento elettrico casualmente captati da antenne ipersensibili. La loro timidezza in effetti è una paralisi della sfera emotiva. Azione e consapevolezza sono scissi. Non so se mi capisce. »
Quando il cervello è ridotto a una spugna da un ingorgo d’immagini senza capo né coda, riesci a trovare un senso solo nella ripetizione compulsiva di stimoli iperveloci. Tutto è già accaduto nulla più è eccitante. Il futuro prende forma in uno stato nebbioso e tutto sarà vissuto senza stupore. Ecco allora le anime distaccate dal corpo volteggiare incoscienti e perfette nei movimenti, come se una coscienza superindividuale le guidasse da dentro. Non possono tollerare i corpi pelosi, marchiati dall’antivaiolo sul braccio come vacche pronte al macello. Non possono tollerare la pesantezza. Hanno un particolare modo di essere nello spazio e nel tempo, hanno un loro ritmo, incomprensibile per gli esseri umani. E quel ritmo li prende con forza irresistibile e li porta ad altezze dalle quali è possibile vedere il dissolversi della materia, quella materia che un tempo si credeva eterna. Un ritmo che pervade il plasma galvanico dentro il quale nuotano, brodo d’informazioni che sollecita le loro antenne trascinandoli nell’inconsapevole danza… (pag. 65, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Scultura degli AES+F
Laroxyl©, Anafranil©, Tofranil©, Vividyl©, Surmontil©. Io i triciclici li conosco bene. Potrei scriverci un libro. So anche i nomi delle rispettive molecole: amitriptilina, clomipramina, imipramina, nortriptilina, desipramina. E so come agiscono. Mio papà fa lo psichiatra. Mi ha spiegato cosa sono i neurotrasmettitori e che una loro deficienza può causare turbe dell’umore, “può farti perdere brillantezza”, dice la mami. So bene che il Tofranil© o il Vividyl© esercitano la loro azione agendo prevalentemente sul sistema noradrenergico, mentre il Laroxyl© e l’Anafranil© su quello serotoninergico. Mica sono tutti uguali i triciclici. Ve lo dico io che me ne intendo. Alcuni ti calmano e non senti più la paura ribollirti in pancia girarti dentro come la centrifuga di una lavatrice. Altri invece non ti calmano affatto, anzi ti mettono addosso una certa voglia di fare, di andare avanti e indietro per la casa, camera-cucina-soggiorno-cucina-camera. Non è che vuoi far niente di speciale. Ti basta andare in giro per la casa. Comunque qualcosa in comune i triciclici ce l’hanno. Ti seccano la bocca riducendoti la lingua a un pezzo di cartone rasposo, tipo se fumassi dieci canne di seguito. Io andavo in giro con la mia bottiglietta di Xerotin©, un umettante artificiale, e quel cretino di Claudio, mio fratello più piccolo, mi diceva sempre “se vuoi ti ci sputo io in bocca”. È un deficiente, come tutti i dodicenni maschi. E poi ti tremano le mani. E anche le gambe, ma questa delle gambe è una cosa più difficile da spiegare. Se stendi un braccio e tieni una cosa in mano, lo vedono tutti: trema. Ma le gambe anche se le stendi non tremano davvero. È una specie di tremore interno, un formicolio profondo, tipo quando ti si addormenta una gamba e fa male, ma la circolazione non c’entra. Questo tremore interno a momenti sembra piacevole, forse addirittura troppo piacevole, un piacere insopportabile, e vuoi che smetta: mio padre dice che questa è una lezione proprio importante da imparare: troppo piacere fa male? Bho! non sono sicura d’aver capito, e tu?
Il ragazzo aveva al massimo sedici anni, forse meno. Si erano incontrati la sera precedente, ma come aveva fatto a trascinarselo a casa? Niente, non ricordava niente, Milena. Un crampo le strinse lo stomaco. Un’onda di nausea bluabbandono le fece gelare i piedi. Come ogni mattina. Chiuse gli occhi li riaprì li chiuse ancora. Poggiò la fronte sull’anta del frigorifero. La tirò a sé. Fu assediata da tutto il freddo trattenuto dentro. Qualcosa bisbigliò il suo richiamo. Il mondo precipitato in una fiala. Spinto fuori come un’acqua benedetta. Liquido amniotico. Il cervello impiccato a un cordone ombelicale. Le dieci unità di morfina fecero effetto in pochi affamatissimi secondi sciogliendo la tensione che legava i muscoli sotto le scapole, uno stiletto piantato fra la schiena e il nuovo giorno.
(pag. 28-29, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Schiacciata sul fondo di un acquario, in un’apnea permanente che le scoppiava nelle orecchie, vedeva la vita attorno a sé svolgersi come deformata, allungarsi e contrarsi seguendo un moto ondoso di cui lei era l’origine. Non poteva muoversi, ché subito falsava ogni prospettiva, faceva sprofondare i punti di fuga. Trasmetteva all’ambiente circostante la sua instabilità, un ondeggiamento che le impediva di afferrare qualcosa. Di afferrarsi. E in quella fluttuazione ingovernabile avevano finito per dissolversi tutti i suoi ricordi. Per questo prendeva il Remembrant, per vederseli scorrere davanti come su un rullo di celluloide. Sapeva che erano suoi, quei ricordi, ma non li riconosceva. I ricordi di dieci anni prima, quando saltava al collo di sua madre, o i ricordi di due sere fa, che sentiva nei muscoli nei tendini ma non riconosceva, quando aveva raggiunto quei due vecchi corpi, boe sballottate da un mare in tempesta, la tempesta di cui lei stessa era l’origine, e li aveva colpiti ripetutamente per trovare finalmente un po’ di calma. (pag 107-8, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Foto di Sandy Skoglund
Non si parlavano quasi mai, eppure sapeva di volerle bene. Si conoscevano dai tempi delle medie, quando ancora era capace di abbracci. Ormai, aveva imparato a gonfiarsi attorno una bolla d’impermeabilità, che espandeva o comprimeva secondo l’occasione, variando la distanza dal resto del mondo animato e cercando, per quanto gli fosse possibile, di non farla mai coincidere con la propria pelle. Detestava ogni forma di contatto. Temeva che qualche particella di sé sfuggita al suo controllo evaporasse precipitando poi su un corpo che non gli apparteneva; o peggio, che qualche particella di calore estraneo potesse infiltrarsi nei suoi pori, nelle mucose, come un polline insidioso e allergizzante.
Conoscendolo si sedette, senza farselo dire, all’altro capo del divano dove Tom era stravaccato. «Come stai?» chiese senza aspettarsi risposta. Avrebbe voluto almeno tendergli la mano, ma sapeva trattarsi d’un inutile azzardo che avrebbe dato il via a una filippica incollerita su quanto deprimente fosse, per lui, mischiare i propri odori con quelli di chicchessia, o alterare il ph della propria pelle rischiando una rivolta pruriginosa.
La materia è un aggregato di sillabe. Fonemi che scoppiano. Sono costretto a parlare. Per non svanire. Per non morire. O continuare a morire. E non posso concludere. Continuerò a lasciarmi dietro una polvere verbale. Uno strascico mortifero. La parola diventa tanto più necessaria quanto più la vita smette di accaderti. Loghost. La parola fantasma che ci aleggia attorno anche dopo morta. Ma io non sono morto. (pag. 112, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
…una dozzina di ragazzini seminudi con corone d’argento intorno alle tempie, tute trasparenti con incrostazioni brillanti di colore blu scuro. Danzando in maniera caotica saltavano verso l’alto attorcigliandosi in piroette aeree… (pag. 63, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Aida Makoto, Monument for Nothing
Aida Makoto, Harakiri school girls
Vide un bambino di tredici anni forse che aveva un taglio azzurro dipinto sul viso avvicinarsi con passi guizzanti al vecchio bevitore di birra e lanciare verso di lui una piccola biglia di metallo che uscì dalla sua mano trattenuta da un elastico e in un secondo alla sua mano ritornò. La biglia colpì il vecchio in pieno viso e quando si ritrasse nella mano del ragazzino, quel viso non era più un viso. La barba del vecchio era un cespuglio rossastro e la bottiglia di birra rotolò per terra senza rompersi. Poi gli si avvicinò saettante uno skater e prese a colpirlo con il deck. Tre ragazzine, uscite dalle pagine di Gothic Lolita, con indosso abiti vittoriani merlettati, gli si fecero attorno lanciando grida di prefiche alternate a sguaiate risa, e un’altra portava in spalla un paio di lunghe ali nere da angelo vendicatore e fissava beata la poltiglia sanguinolenta. Infine una coppia di danzatori magrissimi, fasciati in un viluppo di garze bianche tenute insieme da spille luminescenti, si fermarono davanti al vecchio esanime e con le lunghe spille-fermaglio lo trafissero come se fosse una farfalla che si attacca al muro. Una farfalla ignara della sua colpa e del suo destino.
Il mondo aveva preso a squagliarsi, i bordi si rattrappivano crepitando. Pisciavo densi smeraldi mentre dita sicure mi strofinavano una pezza gelata sulla febbre. Le lancette si stringono come cesoie decapitando le ore una dopo l’altra e una voce, con passo da funambolo, dondola sulla corda dell’orizzonte, finché scompare.
C’è un’ombra posata sul muro, è un mischiarsi di corpi e di ombre. Ombre scritte col fumo sulla parete nuda, e tu, scellerata più del solito, ti sfilasti le scarpe senza darlo a vedere, per lanciarti in quel labirinto di tagli e luci trasversali. La testa china, addormentata fra le braccia conserte, di fianco a un bicchiere vuoto. Curva sul tavolo, il mondo ti si svela poco a poco. È una ruota sospinta da una bambina con lunghi codini neri stretti da fascette color crema (tutto è virato in seppia e sabbia del deserto).
La bambina dipinge sulla parete la sagoma d’un uomo e il piano continua a suonare dolcemente monotono, c’è una ragazza nuda addormentata sul tavolo operatorio e un uomo pallido le poggia in grembo piccole lucertole vive. C’è una pelle che scricchiola come una corda, un libro che brucia, e di tanto in tanto un senso futurista della vita, con ingranaggi temporali connessi alla turbina universalis. Una donna legata a una piramide blu di mattoni e un povero corpo che lacrima. C’è un uomo che dà l’orgasmo battendo un chiodo nel pavimento. Un uomo in una camera bianca tre metri per tre metri per tre metri conficca migliaia di chiodi alle pareti. Un’ombra si spande sulla mano come un latte oscuro. La bambina fa rotolare ancora il mondo in riva al mare e l’uomo inchioda al tavolo due pezzi di pane. Altri bambini, due, reggono una porta azzurra fra le mani poggiandola vicino al sole. Una donna, abito bianco fino ai piedi, esce dalla porta e passeggia sulle ciglia del mare. (pag. 118, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Video di Shûji Terayama, La Femme à Deux Têtes – Cinéma de l’Ombre
Un groviglio, un viluppo, ossa spolpate, smembramenti relitti carcasse deserti ruggine, una cattedrale di pietra blu che galleggia nel cielo. Tutta un’estetica dell’ammantato, della piega, sangue secco, paralisi, occhi cavi, pozzi, eserciti, vento che ha fame, cavalli di polvere nera e bocche mostruosamente dentate spalancate franate, un palo storto ficcato in una distesa di neve fangosa, e altri pali e croci, con pezzi di carne sanguinanti che urlano, bruciano e crocchiano e cadono. Un’ombra rossa avvinta a una colonna. Un’estetica del diroccamento, di ventri sterili, vagine polverose masticate fracassate artigli ricurvi appesi al cielo, galassie mute dietro un drappo di velluto nero spalancato su una sedia macchiata di sangue, un becco puntuto, un braccio teso moltiplicato centinaia di braccia rinsecchite puntate verso rocce rosse, cieli che piovono sabbia, una mongolfiera soffiata a est e sotto steppe e steppe di silenzio battute da lupi colore del tuono, col pelo irsuto gli sguardi ciechi e musi infreddoliti che fiutano morte.
Pozzi con migliaia di mani che spuntano dalle pareti prosciugate, cisterne crepate spaccate che voi preferite a me sorgente d’acque vive sgorgate dal cuore della sete sistole e diastole un arrancare muto un precipizio oltre lo specchio nero di pietra lucida.
Navi sorrette da rami e uova lunari che piovono dalla fortezza-teschio con labbra cineree e fiamme alle tempie due spine dorsali unite in un abbraccio e dita nocchiute rattrappite sul nulla. (pag. 115-16, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Opere di Zdzisław Beksiński
Rafael in volo, l’espressione concentrata mentre salta, un braccio in alto l’altro in basso perfettamente allineati alla gamba per annullare il suo peso e la stessa gravità che lo perseguita, l’attrazione sconsiderata verso terra, verso lo schianto. Cerca una conferma qualunque per sostenere il suo peso, una solidità rassicurante, che non minacci di spalancarsi a ogni passo. Un orlo da cui sporgersi dicendo l’ho scampata.
Foto di Stephen Shames
«Il linguaggio, come articolazione cosciente di simboli codificati tende a divenire obsoleto, nel corredo genetico della stirpe umana. Assistiamo a fenomeni estremi: dall’autismo all’iperattivismo verbale, dal silenzio alla logorrea. L’enunciazione linguistica tende a diventare esercizio virtuosistico senza finalità di comunicazione né tende a preludere al contatto. Gli adolescenti non si incontrano. La sessualità è mera competenza corporea che imita compulsivamente le migliaia di clip pornografiche che hanno rischiarato le loro notti, sfiatandone l’angoscia. Vivono il sesso con una esuberanza che non scalda, un frizionamento impersonale. Dissociato. Non sentono l’altro, né se stessi. Tu, io, noi, una poltiglia di pronomi senza alcun referente.
La loro emotività è contratta, inespressiva, paralizzata. I loro sentimenti rattrappiti, esangui.
KapSoul è comunicazione sottile senza scambio di segni, senza bisogno di sentimenti.
Fili, cavi, correnti, flussi visibili e invisibili attraversano la mente connettendola e mobilitandone l’attività. Ogni individuo reagisce come un frattale. È separato percettivamente ed emotivamente, e si ricombina con gli altri grazie a interfacce esterne funzionali. Questo fenomeno di cablaggio ha creato una situazione dolorosa a livello psicologico. Tutti sono connessi al medesimo flusso, ma ogni individuo è solo, nella rete infinita di fili connettivi. Chiunque riceverà l’impulso KapSoul, al contrario, non si sentirà più solo. Emozioni e sentimenti sono superati. Non saranno più causa di frustrazione e di sconcerto quando i ragazzi potranno far parte di un organismo trans-individuale. Questa trascendenza a portata di chip sarà la nuova killer app che sferzerà il mercato.» (pag. 258-59, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Opera di Android Jones
La sua colonna sonora era “Heil Xanax” dei Death in Vegas. Aveva lavorato per sei mesi in un fast food vicino alla stazione ferroviaria. Sul manuale del crew maneger c’è scritto che devi sorridere altrimenti ti licenziano. Per sei mesi aveva lavorato là dentro come semplice crew, si dice così per intendere uno schiavo con il suo capellino e la camicia a strisce bianche e rosse che fornisce panini a clienti frettolosi. (pag. 60, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
…un plateaux sul quale rimase in volo (un tappeto magico dell’orrore) per le successive venti ore. Colonna sonora: “Wohnton” degli Oval. Era stata Federica a fargli conoscere la musica glitch il cui principio compositivo è l’errore, l’increspatura nell’ oceano della digitale perfezione. “E’ l’errore che guida l’evoluzione. Dio è l’errore!” gli aveva detto, come se avesse intuito con chi stava parlando.” (pag. 247, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Ormai sveglio del tutto spense il monitor e fece partire una di quelle playlist che la sua mamma neo-hippy gli aveva lasciato in eredità.
Some prayers never reach the sky
Some wounds never heal.
(pag. 52, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Il professor Forza si alzò, con un movimento lento e possente, sollevandosi sui braccioli della sedia e volgendosi verso il fondo, dove nell’oscurità si nascondeva una misteriosa alcova, una cuccia fetida appena nascosta da un paravento. “Venga, venga, tengo la mia farmacia personale qua dietro. Del resto, cosa crede che stessi facendo quando lei ha bussato alla mia porta? Crede che mi occupassi di programmazione didattica? No, mio caro amico, la programmazione didattica può andare a farsi fottere per quel che mi riguarda. Calcolavo. Calcolavo il tasso di selegilina nel mio sangue. Contrasta i processi neurodegenerativi e l’inesorabile moria dei neuroni dopaminergici. Anche la serotonina va tenuta d’occhio, stimolandone la sintesi da parte delle cellule intestinali – sapeva che in pratica abbiamo un secondo cervello che porta dritto al buco del culo? – fornendo all’organismo il suo precursore, il triptofano, e inibendo i neuroni addetti alla ricaptazione cosicché il suo livello si mantenga alto nel cervello. È un procedimento alchemico complesso, cosa crede? Epurare gli umori più foschi perseguendo il cammino tortuoso dalla nerezza alla luce. Nigredo e albedo, come lei stesso m’insegna. Ma i tempi sono cambiati professor Vitale, oggi non serve scomodare fiamme purificatrici. Ogni risposta è nella chimica, la più metafisica delle scienze esatte. L’arte suprema che dobbiamo imparare è quella del dosaggio, dell’equilibrio. Io la studio da anni. Non si fidi dei medici. Le parlano d’interazioni sinergiche e schierano le loro molecole in modo inefficace, sovradosandole o sottodosandole, sovrapponendo vettori che schizzano nella stessa direzione come se avesse qualche senso preferire la sedazione, o l’eccitazione, la rimembranza o l’oblio. È la vecchia conjunctio oppositorum il segreto. Vede qui nello stesso bicchiere, quaranta gocce di Tramadolo, un oppioide sintetico, e seicento milligrammi di Modafinil, due antagonisti, insomma, accompagnati da un grammetto abbondante di Oxiracetam, tanto per non tenersi la lucidità nelle mutande, come cantava quel bardo anarchico e maledetto che lei certamente ricorderà. Segua questa dieta e sarà in grado di distillare anche lei, come me, momenti d’assoluta chiarezza. Mi segua professor Vitale, mi segua, la prego.” (pag. 69-70, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Mel. Tredici anni. Pallido. Gli occhi semichiusi. Buttato sul letto come su una zattera. Per non annegare. La mano penzoloni inghiottita da una tenebra compatta. La sveglia lo avvisa ch’è ora d’imbracciare le armi riprendere la sua postazione scrutare la strada che si perde fra i sassi oltre la curva. Dalle casse romba un arpeggio distorto come un’esplosione subacquea e una voce s’esibisce in acute prodezze da incrinare un cristallo:
If you want to be king for a day
just do what I say
Everybody’s got to think like a hunter
just search for your prey.
(pag. 138, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Laddove il manto di nuvole che ricopre l’alto bacino amazzonico, galleggiando verso ovest, si scontra con la cordigliera delle Ande ecuadoriane, e acque gelide precipitano dalle montagne nella foresta nebbiosa, oltre un intrico di rapide difficili a navigarsi, quando i fiumi infine prendono a serpeggiare placidi, là vivono gli shuar, il popolo delle cascate sacre, liquidi bastioni che li hanno protetti per millenni dai nemici. E di nemici ne hanno avuti molti.
Entsákua l’attendeva in prossimità della sua capanna, la più vicina alla foresta. Sembrava già sapere. E anche le madri sapevano, nel rovescio dei loro occhi, che Hilmegard sarebbe partita subito. Aveva appreso quel che doveva sapere: il boa e la tarantola, la sparizione del mondo.
«Il ragno tesse la coperta della notte e il serpente costringe il tempo a girare su se stesso», si limitò a dire la prima madre, mentre scioglieva l’abbraccio e la lasciava andare.
Nella foresta tutti sanno: piante, animali, sassi e acque. Sanno tutti che la battaglia fra tarantola e boa non ha vincitori.
Entsákua si congedò da Hilmegard consegnandole lo tsantsa più sacro per il suo clan. Una testa, rossoviola, con una fascia di tessuto grezzo attorno alla fronte, neri capelli e baffi fluenti. Hilmegard la ripose nella sacca e sopraggiunta l’alba s’addentrò di nuovo nella foresta. (pag. 263, 268, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Anderson De Bernardi, Ayahuasca vision
Valérie stesa sull’erba o a galla, a fare il morto, in mare una vertigine acquatica il naso il mento i seni ricalcano il profilo della montagna. Valérie, la sigaretta in mano, poggiata sul tavolo di legno azzurro della cucina, sorride a Mel, il suo bambino di undici anni, nudo, la schiena rivolta alla finestra, scaldata dal sole. Nella luce incantata della sera Valérie e Mel si abbracciano e c’è qualcosa di materno e qualcosa di oscuro di sdraiato di calmo che respira lentamente nel loro abbraccio. E c’è una stella polare dietro le palpebre chiuse di Valérie e una grazia estatica nella mano che custodisce la scapola del suo bambino e un brivido nella mano che gli scivola sul fianco e Mel si abbandona col solo asciugamano indosso poco sotto la vita che lascia intravedere il pallore rigonfio di una natica. (pag-114-115, Franco Berardi, Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini&Castoldi)
Foto di Nan Goldin